Storie di vecchie osterie genovesi
I tabernacoli dell’onesto peccato, le definiva Remo Borzini, nel 1960. Parlava delle osterie.
Anzi, delle osterie genovesi, come recita il titolo del suo libro: 1000 lire, 106 pagine in carta spessa, in cui si annidano storie e ricette, persone e personaggi, e un mondo che non esiste più, popolato da osti romantici e camalli, boxeur e vecchie signore. E come palcoscenico, la vecchia Genova, città forse un po’ più povera di oggi, ma sicuramente più Superba.
Anche i buongustai (non si definivano certo “gourmet”) erano diversi: di sicuro non gastrofighetti, né enosnob, tracannavano con gusto il il biondo Coronata o il sanguigno Mornese (bianco e rosso, parliamo di vino), ma di sicuro non si facevano infinocchiare in tema di ravioli ben fatti – scambiando – come capita oggi – il fatto in casa con il surgelato di qualità.
Ed ecco che nel libro si legge dell’osteria del Garbuggiun, dove si beveva bene e si mangiava meglio, a due passi dai campi di football del Genoa Cricket and football club e del Doria, dove, in estate, veniva servito il salame di Orero con i fichi dell’albero gobbo (“un albero enorme, che dilagava dal muro dell’orto fin sulla strada, dove innamorati golosi si rifugiavano di sera sotto quel fogliame, alternando, nel buio, baci e fichi con la lacrima“).
Oppure dei ravioli della Cumbin, osteria sotto la chiesa di San Salvatore: “i ravioli per la Cambin erano ciò che fu il Decamerone per il Boccaccio e la Commedia per Dante: il capolavoro…. Ricordava spesso la sua giovinezza, la Cumbin, ma sempre in funzione dei ravioli. Quelli si ch’erano tempi! Quando il duca Deferrrari e il marchese Spinola e il conte Grimaldi (tutta gente in punta di piedi che aveva il sangue più blu dell’inchiostro stilografico) non disdegnavano di oltrepassare la soglia dell’osteria, deporre i guanti bianchi sul banco di zinco e, due e due quattro, ordinare ravioli per tutti. Dei soliti, con cervello e lacetti, verdi di boraci, teneri di parmigiano (una mollica spappolata di pane non guasta, ricordiamolo!) e sapidi di sughi magici“.
E poi Carlin dal pugno proibito, e il Gustin marinaio del Geirato, il Vaccamorta di Coronata (“due chiese e tre osterie; alcune vecchie vigne superstiti; fumo d’incenso e fumo di ciminiera: questa è Coronata”) e l’Osteria del Bay, dove ha cenato Garibaldi, e che ancora oggi accende le sue insegne.
Un mondo che non c’è più, raccontato da Remo Borzini con garbo e ironia antica e genovese, senza il dovere categorico del “politicamente corretto” a tutti i costi, come si capisce da questo pezzo riportato, dedicato al Toro di Sampierdarena, oste della Coscia, gran cuciniere di bollito, frittata e stoccafisso. Godetevelo, come abbiamo fatto noi.
L’Ettore, detto il Toro, l’oste della Coscia, ha superato gli ottant’anni ed ha il braccio di ferro. Da giovane piegava le monete di rame (le due palanche, tanto per intenderci, quelle col profilo di Umberto) mettendo in gioco la forza di tre dita, pollice indice e medio, della mano sinistra. Spesso, troppo spesso, piegava anche la rigida autodifesa delle ragazze del rione, perché era un bell’uomo dagli sguardi brucinati, dal crine leonino e certi baffoni virili che accendevano i desideri femminili.
Il suo pugno aveva fama a largo raggio. C’erano lui e il Baiguerra a far paura. Cuori d’oro e muscoli d’acciaio. Erano amici l’oste della Coscia ed il boxeur innocente. Il blasone di Sampierdarena non era un blasone come tanti altri, con spade, fronde di quercia e belve rampanti. Ero lo stemma democratico dei fabbricanti di latta e degli spremitori di olio d’oliva, ma tra gli altri simboli non mancava certo il pugno dei due invitti ed invincibili compari.
Un giorno una cavallina sarda che il Toro aveva messo sotto stanga per recarsi a Pra a ritirare in gran fretta la cesta dei gianchetti appena munti dal mare, si ribellò. Ruppe gli attacchi, rovesciò il calesse e giù di gran galoppo per il vicolo, fino alla spiaggia. L’Ettore la raggiunse e col sangue agli occhi, la colpì una sola volta sulla fronte. Non voleva farle male, naturalmente, ma la cavallina finì la sera stessa dal macellaio del Laberinto e la storia non dice se, ad uso delle massaie sampierdarenesi, divenne vitella da latte.
Il Baiguerra non poteva restare da meno e destino volle che qualche tempo dopo gli capitasse tra i piedi un asino ch’era asino in tutto, anche nella cocciutaggine. S’era sdraiato attraverso il viottolo che dal Campasso saliva al Begato e lì se ne stava, beato e pacifico, pensando ai fatti suoi. Quello era il viottolo che ogni dì il Baiguerra percorreva a passo di marcia per tenersi allenato nei muscoli della gambe e nel mantice del torace. Col Baiguerra c’erano i suoi allievi, che lo seguivano sudando e sbuffando. Ed ecco il ciuco. Un macigno. Cercano di farlo alzare con le buone parole, con teneri richiami. Parole e richiami che avrebbero meritato ben altra destinazione, tanto erano dolci. Nulla da fare. Il timbro della voce si fa più aspro. Da parte dei giovani vola qualche calcio. Ma per l’animale filosofo quelle sono carezze e gli fanno fresco, anche se ad ogni colpo di scarpa nel costato, il ventre gli rimbomba come cassa armonica. Fin qui il Baiguerra si è tenuto in disparte, marcando il passo per non rompere l’allenamento. Ma d’improvviso ferma l’andatura di marcia e resta con una gamba a mezz’aria che sembra un pendolo rotto. Mezza flessione sulle ginocchia lo rimette in posizione da cristiano. Stringe i pugni con ostentazione quasi fosse sul ring e dall’avambraccio sgorga sottopelle la massa dei muscoli. Rotonda come il ventre di un pitone che abbia ingoiato un coniglio. Il Baiguerra si guarda in giro (vuole l’applauso?). L’asino continua a ronfare, ma ancora per poco. Un diretto lo colpisce alla base delle lunga orecchie, là dove la fronte è grigia e piatta come l’ardesia di un davanzale.
Ettore e Baiguerra: uno ad uno. Siete pari. Ed una cavallina sarda vale un asino del Begato, sul banco del macellaio del Laberinto.